Progetto #PassaggioDiTestimone - la storia di David Cassuto
Giovane Kehilà, il movimento giovanile della Comunità italiana in Israele, lancia il progetto #PassaggioDiTestimone.
Nell'ambito del progetto filmeremo / scriveremo / registreremo le storie dei sopravvissuti italiani in Israele. I materiali verranno pubblicati sul sito della GK e mandati anche all'archivio di Yad Va-Shem.
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Storia di David - figlio di Nathan Cassuto, Rabbino capo di Firenze -bambino nel periodo della Shoà.
Che cosa si può dire di un bambino di 5 anni e mezzo? Oggi direi che è un essere senza preoccupazioni ma per noi allora, quando giungemmo a Firenze, non era così: il nostro trasferimento, che pur ci rendeva felici perché ritornavamo in questa città, era accompagnato da un senso di sconforto e di preoccupazione. I miei primi anni li avevo trascorsi a Milano e il ritorno a Firenze significava vedere mio padre felice per esser tornato alla sua città natale, al suo scenario familiare; e se il babbo era felice, allora dovevamo esserlo anche noi. Ma nello stesso tempo, a questo nostro passaggio si univa la preoccupazione dovuta forse al grande onere che mio padre aveva preso su di sé come rabbino capo della comunità ebraica in quei giorni così folli.

Nostro padre si dedicava a noi soprattutto nelle domeniche, quando ci caricava sulla sua bicicletta e ci portava nelle colline toscane. Faceva salire me sul manubrio e Susanna in canna, mentre Daniel, che era ancora molto piccolo, rimaneva con la mamma. Arrivati a un certo punto papà legava la bicicletta ad un palo e continuavamo la nostra gita a piedi. Ci insegnava la botanica indicandoci i nomi degli alberi e dei fiori, raccoglievamo le more che portavamo poi alla mamma perché ci preparasse una marmellata, ci portava ad ammirare le grandi opere d'arte di Firenze all'interno di chiese e di musei. Sapevamo chi erano Michelangelo e Leonardo da Vinci e conoscevamo le loro opere dalle quali avevamo modo di imparare anche i nomi dei profeti, dei re e delle sacre figure bibliche dipinte negli affreschi sui muri, nelle vetrate variopinte. Quante cose è riuscito a trasmettermi in quei tempi – ed ero solo un bambino! Conoscenze legate tanto alla Torà quanto alle meraviglie della Toscana - come se il suo cuore gli avesse predetto che di lì a poco non avrebbe più potuto dedicarsi alla nostra educazione. Quell'educazione all'amore per la Torà, per Firenze e per i suoi tesori, che ci è stata impressa in quei primi mesi a Firenze e che è rimasta in noi fino ad oggi.
Di tutto quel periodo ricordo le lunghe camminate dal viale dei Mille alla poderosa grande sinagoga situata in via Farini. Ricordo le brevi visite nella sinagoga storica in via delle Oche, la zia Ninetta – sorella di nonno Gustavo, il mio bisnonno – la quale sedeva nel matroneo in tutto il suo splendore; e ricordo il senso della storia che mi avvolgeva incuteva in di me un grande timore reverenziale!
Non posso dimenticare la figura impressionante di mio padre in piedi sul pulpito, i suoi sermoni pronunciati con voce tuonante e il calore del suo corpo quando mi avvolgeva nel suo manto rituale durante la benedizione sacerdotale nella sinagoga. Un giorno, se la memoria non mi inganna, gli sentii una frase che mi rimase difficile da capire e le cui parole compresi solo molti anni dopo, leggendole: "Si guardi ciascuno dal suo amico e non ci si fidi del proprio fratello ... poiché ogni fratello non fa che ingannare ed ogni amico diffonde calunnie ..." (Geremia 9;3). Tuttavia egli proseguiva con una conclusione più incoraggiante "Voglia il Signore che il senso di vera fratellanza regni nei cuori di tutto il genere umano e che spiri per sempre sull'universo un vento di bontà e di pace. Amèn". Quel che mi è rimasto impresso è che pur non comprendendo le parole, sentii l'intensità del momento.
Un giorno il babbo chiamò la mamma in giardino, per insegnarle come si eseguiva la macellazione rituale per i fedeli della comunità. Mentre io e mia sorella sbirciavamo da dietro uno degli alberi, mi chiedevo: ma perché tutto questo? Perché mai ...? fu in quel momento che il babbo, al quale non era sfuggita la nostra curiosità, ci chiamò e ci disse: "Vedete, la macellazione rituale, e dopo di essa la copertura del sangue, che racchiude l'anima dell'animale, è il modo più umano per prendere la vita di un animale del quale abbiamo il permesso di cibarci." E noi eravamo là, ad assorbire le sue parole. Anche la mamma lo ascoltava sapendo che ad un certo momento la responsabilità della macellazione Kasher per la Comunità fiorentina sarebbe potuta ricadere sulle sue spalle.
E un giorno il babbo scompare dalla nostra vita e noi iniziamo a passare i nostri giorni in una stanzetta all'interno del monastero Della Calza, circondati da molte suore. La mamma ci avverte che non dovevamo assolutamente svelare il nostro segreto e noi, da parte nostra, capivamo la grande responsabilità che pesava sulle nostre giovani spalle.
Un giorno portano a tavola una frittata di sangue ed io rimango esterrefatto. Non ero un bambino facile per quanto riguarda il mangiare, ma data la situazione in cui ci trovavamo avevo solennemente promesso che avrei mangiato tutto quello che mi sarebbe stato servito. Ma il sangue! E quindi mi sfugge la frase "Ma papà ha detto che non si può ...!" La mamma mi gela con uno sguardo. Avevo svelato il nostro segreto, ma con la sua voce buona e tranquilla mi risponde: "È vero, il babbo ti ha dato il permesso di non mangiare il sangue ... se non vuoi, non sei obbligato!"
Persi anche il mio nome; non ero più David, ma Giorgio ... mi trovavo come a giocare a nascondino con la mia identità, mi sentivo come un'attore su un grande palcoscenico, ma alla fin fine ero sempre un bambino. Il babbo veniva raramente e io volevo tanto abbracciarlo come facevo in passato, ma questo era impossibile; all'interno del monastero, che era solo di monache, lui non poteva metterci piede. Poteva stare solo all'ingresso ...
E venne il giorno in cui il babbo non venne più. Saremmo poi venuti a sapere che era stato preso, anche se non capii in quei giorni quale sarebbe stato il significato di questa sua scomparsa. Fuggimmo dal monastero giusto in tempo per non essere catturati. Ricordo la mamma spingere la carrozzina in cui c'era la mia sorellina di un mese, io che la seguo aggrappato alla carrozzina e mia sorella Susanna che tiene in braccio nostro fratellino Daniel. Così, in questa formazione, camminiamo senza fermarci e io seppur stanco, non piangevo perché il babbo, l'ultima volta che lo avevo visto, mi aveva chiesto di essere forte; e io ero forte. "Ma perché non la smettiamo di cammin